venerdì 11 novembre 2011

DIANE ARBUS | La purezza del vedere e del sentire

"I always thought of photography as a naughty thing to do - that was one of my favorite things about it, and when I first did it, I felt very perverse."

La Fotografia, nell'interpretazione che ne ha fatto la Arbus, si è fatta strumento di emancipazione, di libertà, di ribellione.

Emancipazione dall'opprimente american way of life degli anni Cinquanta, in cui una donna di buona famiglia era tenuta a sognare una casa con giardino fuori città, un cane e un nuovo figlio, a sentirsi a proprio agio nella morsa di vestiti castigati, metafora di una società altrettanto rigida e non incline a "sbottonamenti" reali o metaforici (o, almeno, particolarmente dura col cattivo gusto di chi osava trasgredire alla luce del Sole, senza prendersi la briga di occultarsi ben bene dietro la spessa e misericordiosa cortina dell'ipocrisia).



A chi le chiese il perché si fosse dedicata seriamente alla fotografia solo a partire dai suoi 38 anni, ella rispose, con un sarcasmo cristallino: "Perché una donna passa la prima parte della sua vita a cercare un marito, a imparare ad essere una moglie e una madre, e a tentare di svolgere questi ruoli nel modo migliore. Non le resta il tempo di fare altro."

Fotografia come strenua affermazione del proprio essere deforme: del proprio esistere, in quanto individuo/entità autonoma, al di là di ogni forma prestabilita e imposta.
E proprio la categoria del 'deforme', infatti - nella sua accezione etimologicamente neutra, e quindi sgombra da qualsiasi intento di giudizio -, fu il campo prescelto da questa fotografa americana per cercarsi, e riconoscersi, nel mondo che la circondava. Dai più classici "fenomeni da baraccone" agli individui affetti da deformità fisiche o psichiche, o più semplicemente considerati dalla società dispregiativamente "diversi" per certi loro comportamenti e attitudini (casistica che viene solitamente riassunta dal termine 'freaks', con cui ci si riferisce a persone che siano fisicamente abnormi o, più in generale, a individui considerati negativamente inusuali a causa del loro modo di agire).




Talvolta la deformità si fa più segreta, nascondendosi nelle pieghe ben stirate di una quotidianità borghese che si vorrebbe impeccabile. Ma, dice la Arbus: "c'è sempre una differenza tra quel che vogliamo si sappia di noi e quello che non possiamo evitare si sappia di noi; è la distanza tra l'intenzione e l'effetto"; è in queste foto che il senso di inquietudine si fa più forte, proprio quando la sensibilità della Arbus si infiltra in questo stretto spazio incontrollabile, svelando storture segrete in volti e corpi all'apparenza perfettamente normali.





Una sua celebre affermazione recita: "La Fotografia è un segreto intorno ad un segreto: quanto più ti dice, tanto meno riesci a capire".
 La Fotografia mistifica, aumenta il caos invece di dissolverlo, perché intacca la superficie uniforme della presunta "realtà oggettiva", frantumandola in una miriade di tasselli minuscoli, di sguardi unici. Laddove non c'era niente, ora c'è una foto, e ciò che sarebbe passato senza lasciar traccia di sé, ora imprime col peso della memoria un supporto materiale potenzialmente eterno (grazie alla sola spinta emotiva che ha portato il fotografo a scattare proprio lì, proprio in quell'istante). Laddove c'era un vuoto di senso, ora c'è l'interpretazione che di quel vuoto ha fatto una singola persona. Ogni foto, per questo, è un segreto elevato a potenza.
 E Diane Arbus, come molti altri grandi fotografi, lo sapeva bene, che fotografare non significa ritrarre la realtà, come in un semplice riflesso di specchio. 




Nel momento in cui si scatta, le apparenze del reale sono già state istantaneamente sottoposte ad un "filtraggio" e ad una trasfigurazione attraverso la propria interiorità (che le ha scelte, che le ha in qualche modo "riconosciute"). 
Dopo quell'attimo, quella realtà non è più la realtà "di tutti"; è come dire "Ecco: questa è la mia realtà. Questa sono io". Scattare, in questo senso, diventa una presa di coscienza del proprio sé prima ancora di ciò che è fuori da noi (e, come scrive Bertelli nel suo saggio: "prendere coscienza di sé abolisce ogni soggezione"). Fotografare diventa così gesto estremo di libertà, di autonomia, di consapevolezza; un ratificare la propria esistenza in questo mondo - giusta o sbagliata che sia -, un calcarne i contorni quando questi sembrano sfumare nell'indistinto. 




Come una sorta di "vedo (e scatto): dunque sono" che scaccia momentaneamente la paura, che afferma con forza il nostro diritto ad esistere al di là di ogni presunta conformità obbligata.
Le fotografie della Arbus propongono, essenzialmente, modi diversi e "altri" di stare al mondo. Non tanto però - o non solo - per fare della Fotografia sociale; quanto nella speranza che, all'interno di questa sconfinata varietà, anche il suo modo possa trovare spazio.



Nei suoi scatti non c'è traccia di patetismo, morbosità o auspici di riscatto: il diverso e lampante "esserci" dei protagonisti è già di per sé l'unico, vero riscatto possibile, ben più dignitoso e concreto di qualsiasi accettazione "concessa" dal resto del mondo, invischiato in un concetto di solidarietà che il più delle volte nasce esclusivamente da un potentissimo senso di sostanziale estraneità nei confronti di queste realtà marginalizzate.
L'unico sentimento presente è la partecipazione: una partecipazione che non potrebbe essere così forte se chi scatta non si sentisse intimamente lacerata per il suo considerarsi "sbagliata", impaurita dalla potenza devastante del pregiudizio.
La Arbus bussa rispettosamente alle precarie porte delle esistenze che immortala, chiede di essere accolta e soprattutto - in forza di un capovolgimento di ruoli - di essere accettata: quasi chiedesse un'elemosina di coraggio a quegli individui così "strani", ma nonostante tutto perfettamente in grado di esistere (facoltà, questa, che cesserà di assisterla nel 1971, conducendola al suicidio dopo un lungo periodo di depressione); educatamente, non entra mai prima che le venga detto "prego, avanti".



E' anche questo sentimento di necessità disperata che, mettendo al riparo le sue foto da ogni documentarismo, rende la sua opera così profonda agli occhi dell'osservatore.
Ogni sua foto è coltivata attraverso un rapporto diretto con il soggetto, in cerca di una reciproca fiducia, di una comprensione: le sue immagini non sono mai rubate, non si affidano all'abile arte dello spiare che fa la posta al fantomatico "momento decisivo"; i soggetti sono quasi sempre in posa frontale, consapevoli nel loro essere investiti dalla spietata carica indagatrice dell'onnipresente flash.
In totale controtendenza con il suo nascere fotografa di moda, la Arbus focalizza costantemente l'attenzione sulle espressioni e sugli sguardi, mimetizzando al massimo ogni accessorio, sia esso il vestiario del soggetto o l'ambiente che lo accoglie.



Scarsissima, quasi assente la ricerca compositiva dell'immagine ("Detesto l'idea della composizione", dirà), così come l'importanza riconosciuta al processo di stampa: "una foto è importante per ciò che rappresenta; ciò che essa rappresenta è più importante di quello che essa è".
Elogio della sostanza a discapito della tirannia della forma/apparenza, quindi; tanto che la Arbus stessa avrà modo di accennare alle sue "brutte fotografie", impermeabili ad ogni limatura artistica, ma proprio per questo capaci di disvelare verità altrimenti invisibili.



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