martedì 10 gennaio 2023

VISIONI LOCO(E)MOTIVE. A L'a/telier di Modica, la mostra di Sergio Poddighe e Ignazio Monteleone. Testo critico a cura di Giovanni Carbone.


VISIONI LOCO(E)MOTIVE

di 
Sergio Poddighe e Ignazio Monteleone

14 gennaio - 10 febbraio 2023
Vernissage: Sabato 14 gennaio alle ore 19:00

Via Pizzo, 42, Modica (RG)

 

Dialettica della follia (Allonsanfàn parte diciassettesima: confronti, Ignazio Monteleone e Sergio Poddighe)

Testo critico a cura di Giovanni Carbone


Non è cosa semplice, mai, far dialogare artisti diversi, ma capita che, al di là di manifeste distanze stilistiche, essi possano esprimere insospettabili convergenze. Ignazio Monteleone e Sergio Poddighe sono, a primo acchito, talmente lontani da non immaginare come le loro opere possano prodursi in un comune percorso narrativo.

Pare abbiano in comune al massimo taluni cenni biografici: sono entrambi siciliani, intanto, e questo non è dato che si possa trascurare, pure se l’uno, Monteleone, nella classicissima categorizzazione degli isolani dello storico direttore dell’Ora Nisticò, è siciliano di scoglio, tenacemente abbarbicato alla sua terra, in un bilico costante che oscilla tra Modica e Palazzo Adriano. L’altro, Poddighe, palermitano di nascita, è più siciliano di mare, ché non si fece scrupolo a lasciare che fossero soltanto furibonde nostalgie e brevissime incursioni a garantirgli il legame con l’isola. Entrambi si sono formati nel mondo delle accademie, quella di Firenze per Monteleone, Poddighe ha invece frequentato Roma. I trascorsi di studio attento sono evidentissimi in perizie tecniche raffinate, evolute in decenni di pratica. Hanno insegnato discipline pittoriche nei licei artistici prima di farsi pensionati praticamente in simultanea.
Dal punto di vista stilistico sono praticamente antipodici. Monteleone appare scanzonato, i suoi soggetti sono ombre che si muovono su tappeti di colore, non è tipo che s’arrende alle cupezza del tutto d’intorno. È, dunque, pittore resistente, già dai tempi in cui non ci s’avvedeva che c’era di che farsi partigiano, piuttosto s’anelava assuefazione. Nel suo atelier-abitazione, un vecchio magazzino riattato all’uopo, si respira storia, si legge sulle pareti un lunghissimo percorso artistico. Si sente il vociare felicemente scomposto dei suoi allievi, cui cerca ancora di tirar fuori estri creativi oltre il tempo scuola. Perché la sua non era la scuola d’un paradigma aristotelico, piuttosto Stoa, caparbia voglia di scoprire i talenti nelle dita e negli occhi dei suoi ragazzi.

Come faceva il Maestro Manzi quando insegnava a leggere e scrivere a milioni di italiani, lui smantella sovrastrutture per liberare la creazione d’un linguaggio nuovo, non soggetto ai valutatoi prescrittivi del contemporaneo. I suoi lavori aderiscono alla ricerca incessante della bellezza attraverso un tratto apparentemente ingenuo, mossa efficace e spiazzante contro la sproporzione delle forze in campo. Corvi e Vele e il giallo (“ch’è colore bastardo”), il suo Don Chisciotte, le sette palme che danzano, i treni a vapore oscillano tra nostalgie e gioco autentico. Ignazio, che è figlio di ferroviere, come lo furono Quasimodo e Vittorini dalle stesse parti, sa cosa c’è da aspettarsi ad ogni stazione, ad ogni fermata, i fazzoletti levati al cielo, umidi di lacrime e colorati di rossetti, fasci di palme stesi ad asciugare per una domenica di festa. La sua opera è preziosa poiché non si limita ad esporsi, invita al convivio, come le sue mostre, dove è quinta condivisa di pomodori e caci, olive, uova sode e pani caldi, manco a dirlo, vini pista e ammutta che incendiano le budella col gusto della terra bruciata dal sole. Le note di Schifano ci sono tutte, inseguite dai suoi studi fiorentini, messaggi di avanguardie isolane ed approdi per ogni continente. Colori precisi e tratti sfumati, contorni nitidi e ombre fuggenti, nel tutto che si disincrosta dell’eccesso sino a renderci l’essenza del pensiero più autentico, sono la sintesi dell’oggetto che amplifica la nostalgia per le forme esatte. Quadri che fanno suoni, melodie di motori sbuffanti, scalpiccio di zoccoli e fruscii di piume, ma pure odori forti, commenti soffusi. risa giuste. Il suo lavoro di anni, le sue opere, sono barricate altissime che provano a reggere a difesa degli ultimi presidi d’umanità.
I lavori di Poddighe, invece, hanno più l’apparenza di desolata contemplazione del tramonto dell’uomo, sono la rappresentazione esatta della disumanizzante mercificazione dei suoi sogni. 

I desideri umani perdono completamente il carattere di processo decisionale autonomo, sono eterodiretti, rappresentano adesione incondizionata ed acritica ad un unico modello prescrittivo. L’uomo stesso appare come entità devitalizzata, relegata alla parzialità dell’essere, dunque, incompleta, mutilata, che rincorre l’effimero come unica vacua speranza compensativa. Riempie i propri vuoti creandone di nuovi, rincorre le proprie ansie costruendone di ulteriori, mai definitivamente consapevole del proprio progressivo svuotamento. Con l’avvento del capitalismo, l’uomo cede dapprima una quota parte del suo tempo al lavoro alienato, allo sfruttamento, al giogo produttivo, poi rinuncia a ciò che resta del suo vissuto per destinarlo al consumo, quindi, esaurito pure quel tempo, diviene esso stesso merce. E l’uomo-merce è ridotto a mera immagine, si autoriproduce in forme standardizzate e seriali, non ritiene alcuna identità, è solo un piccolo ingranaggio della gigantesca macchina della massificazione produttiva. Il suo è un richiamo alla società dello spettacolo che annichilisce i singoli, li relega a monomeri costitutivi d’un tutto conforme in cui essere e apparire coincidono. I selfie in sequenza compulsiva dei social ne paiono la rappresentazione più eloquente. Eppure, in ogni passaggio, anche il più crudo della sua produzione artistica, Poddighe non rinuncia mai all’ironia, non smette di prendere in giro i tempi grami delle sue rappresentazioni, gioca persino con questi come con se stesso. Riesce ad alleggerire il carico pesante della frustrazione. Definisce persino una via di fuga dal contingente, per altri aspetti disegna una prospettiva politica, poiché recupera il senso etimologicamente più puro del termine, quello che deriva dalla Polis greca, sottinteso di impegno e partecipazione. Egli partecipa, infatti, lo fa con competenza da intellettuale, poiché si interroga sui processi. Anche se nelle sue opere permane la percezione di un fatalismo quasi disperato, è proprio quella sottile ironia, quel saper raffigurare con linguaggio schietto l’esistente, che ha insito il superamento dell’alienazione.

Da un punto di vista tecnico spinge al limite il rapporto tra produzione digitale e pittura classica, attraversa in modo personalissimo i segni d’un surrealismo operativo e concreto, in cui il dettaglio non è orpello estetico, diviene, piuttosto, elemento narrativo che manifesta il complexus delle relazioni uomo-oggetto, ne eviscera la perversione.
I due si interrogano sulla follia, lo fanno con consapevolezza piena, superando i paradigmi consueti. Metterli a confronto non è impresa così temeraria, giacché la loro narrazione, mentre si concentra su differenti punti d’osservazione, costruisce un mosaico esatto in cui ogni tessera è un’opera, ciascuna complemento d’un’altra. Si confrontano col significato di follia a partire dal suo presunto opposto, la percezione della “norma”, della “moda”. Monteleone usa, per questo, l’archetipo illustrativo del pazzo, la sua accezione più pura, persino letteraria, scovata nelle parole di Cervantes. I suoi Don Chisciotte appaiono sfumati ed indefiniti, ombre e basta, con lo sfondo di profondità senza tempo, senza spazio. Ombre e basta, perché questa è nell’immaginario collettivo la pazzia, solo l’ombra cui non volgere lo sguardo. È deviazione standard da comportamenti normali, quelli che tengono i più, che accettano codifiche, quali che siano consegne e conseguenze. Il pazzo, il dago, il reietto, il miserabile, meglio non guardarlo, non vederlo, lasciarlo nell’oscurità d’una improbabile indeterminatezza, con lo sfondo colorato e rutilante della “moda” (concetto statistico.matematico, come da definizione “la moda (o norma) di una distribuzione di frequenza X è la modalità (o la classe di modalità) caratterizzata dalla massima frequenza. In altre parole, è il valore che compare più frequentemente). Eppure quella divergenza dal normale esprime bagagli smarriti d’umanità che parole ed immagini riarticolano in pensieri complessi, perché la grammatica della follia è apertura d’orizzonte, ricerca d’utopie, di sogni realizzati. Don Chisciotte partecipa ai destini umani, alla sua immanente schiavitù dell’apparire, alla sua privazione della libertà d’essere, è, in definitiva, l’uomo compiuto.

A quella schiavitù rivolge lo sguardo Poddighe, I suoi sono soggetti perfetti, esteticamente collocati nel cliché della normalità. Soggetti privi di pensiero divergente, dunque incapaci di concepirne uno critico e complesso oltre quello dello stereotipo. Non accettano d’inserirsi nella dialettica sociale in forme conflittuali e partecipative, sono corpi prêt-à-porter, adesioni perfette a modelli preconfezionati, la fantasia al potere è abolita. 

Ma l’adesione al cash & carry del quotidiano ha necessità di vittime sacrificali, non accetta gratuità, pretende amputazioni d’umanità, metaforicamente rese negli smembramenti dei corpi.
La dialettica della follia si compone nel dialogo tra i due punti di vista, ne rende efficace la narrazione, va oltre la “norma”, si fa strada nel dubbio. La concezione atavica del “pazzo” si estende, finisce col riguardare il visionario, quello che supera la cortina di fumo dell’apparenza. I due, dunque, propongono una versione alternativa della narrazione consueta, e il “pazzo”, a costo d’essere “espulso” dalla conformità, non rinuncia alla completezza dell’essere umano poiché nella sua natura c’è lo sguardo verso l’oltre, non s’arrende all’ovvio. Rinunciare alla visione altra, produce la follia non dichiarata della convenzione, denuncia d’omologazione sino al definitivo annullamento del singolo, derubricato a numero, ad oggetto.

Oltre la natura umana l’oggetto per Monteleone diventa esperienza trasognata, le sue locomotive ad esempio, prendono vita da segni essenziali, un ritorno ad una dimensione fanciullesca. L’artista guarda i suoi treni come un mondo perduto, li interpreta con divertita nostalgia. Poddighe, invece, studia l’evoluzione dell’uomo al cospetto di quegli oggetti, il processo di progressivo compenetrarsi reciproco, il primo che diviene macchina, ingranaggio asettico e disanimato, il secondo che acquista centralità, che appare dominante.

Questo dialogo a distanza tra due concezioni diverse dell’arte, convergenti nei temi dirimenti dell’oggi, diverrà materiale e tangibile in mostra a Modica, già agli inizi del prossimo anno, a cura dei ragazzi di Immagina (“Dialettica della follia”) e dello spazio L’A/telier (“Visioni loco(e)motive”). Sarà occasione concreta per un andar oltre.




L’A/TELIER
NON LUOGO DI SITUAZIONI E CONTEMPORANEITÁ

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