"Lo stimolo a fotografare l’ho avuto dal desiderio di cogliere la realtà del “dopo”, di ciò che resta dei corpi dopo che l’alito vitale, l’energia che permette a ogni singola cellula del nostro organismo di riprodursi, agire ed interagire, l’ha abbandonato."Dichiara così Alfio Torrisi, spiegando una delle ragioni che lo hanno mosso a scrivere "L’immanenza dell’aldiquà. Racconti immorali" (2020), un raffinato cahier di dieci fotografie accompagnate da altrettanti testi che restituiscono al lettore dieci ritratti di vite che nemmeno la morte è riuscita a strappare all’abominio e a consegnare alla pace dell’oblio.
Le fotografie ritraggono alcuni corpi mummificati che albergano nei sotterranei del Convento dei Cappuccini e dell’attigua Chiesa della Madonna della Pace a Palermo, ove si contano oltre ottomila scheletri e corpi mummificati, tra nicchie, casse e urne.
Il prof. Salvatore Sequenzia, semiologo e critico letterario
La voce dell’aldiquà, L’impiccato, La cortigiana, Il delatore, Il boia, La regina, Il lacchè, L’arciprete, Il cerusico e, infine, La pazza: sono questi i personaggi che, tra Villon e Lee Master, l’autore convoca in questo singolare autodafè proclamato, paradossalmente, post mortem da chi ha scontato in vita la condanna della propria diversità.
Questo geniale libretto presenta una carrellata di personaggi che si offrono al lettore come un teatro barocco in cui fondale e campitura si intramano problematicamente con quanto affiora in primo piano, di volta in volta, durante la “recitazione” del travaglio delle loro esistenze.
Per l’autore si tratta di dare voce agli esclusi, ai reietti, agli emarginati e agli eslegi nei quali l’ultimo Foucault intravede il respiro di una «etica differente» soffocato dalla «società disciplinare». Noi, in questo museo d’ombre, cogliamo la «chioccia» melopea bufaliniana che suscita anime implacate per auscultarne il racconto delle loro vite irrisolte.
Se è vero che a muovere l’autore a intraprendere questa catabasi nell’aldiquà è stato – come egli stesso dichiara – «il desiderio di cogliere la realtà del “dopo”» – i corpi ritratti nelle fotografie, vere e proprie carte di identità di «personaggi» vissuti «a cavallo tra la fine del 700 e gli inizi dell’800» in quella Palermo «felicissima» e laida che tanta materia offrirà alla storiografia e all’arte, il racconto delle loro vite inchioda, inesorabile, questi misérables al “prima” irrevocabile della loro esistenza, dopo la quale, ammette Torrisi, vi è «l’aldiquà […] una realtà fatta di niente, un grande vuoto e basta».
Per Torrisi, come per Blanchot e per Deleuze, le soggettivazioni di una esistenza «ritornano come ciò che è differente e incommensurabile», e si pongono davanti ai nostri occhi come la figura dell’Oblieuse Memoire evocata da Blanchot, assumendo l’oblio e la dimensione dell’esser-fuori come impossibilità del ritorno del medesimo.
Da tale ossessione nasce, a mio parere, il «progetto» di questo libro singolare.
D’altra parte, come notava Cesare Segre all’inizio del suo saggio Fuori del mondo, i modelli nella follia e nelle immagini dell’aldilà (Einaudi, 1990), «la nostra appartenenza a questo mondo ha qualcosa di ossessivo», che lascia una impronta indelebile di sé – una «espressività» come la definisce l’autore – in tutto ciò che è, appunto, fuori del mondo: oltre la vita, in quell’aliquà a cui Torrisi offre occhio e voce.
Di fronte a tanto intrecciarsi di una soggettività fantasmatica e “spettrale”, consistente e resistente in questi «personaggi» fluttuanti in una dimensione larvale, nella loro «urgenza di raccontarsi» e di rivelarsi, tutta pirandelliana, si avverte quasi una attesa di un evento o di un fenomeno in grado di riportarli a nuova vita.
La scoperta di un elemento coagulante è il riconoscimento del ruolo, di una funzione da essi svolta nell’ambito della loro vita preesistente: una sorta di identificazione di una presenza antica, inquietante e di forte proiezione rituale che il cunto dell’autore evoca secondo una narrazione che assume i tratti di genere, dispiegandosi nei moduli narrativi del cuntu, come teorizzati da Pitrè e da Propp, e tradendo un certo statuto teatrale. Si intuisce, infatti, nel raffinato specchiarsi e riflettersi di scrittura e di immagine, una risonanza neobarocca tra narrazione e rappresentazione, tra testo e movimento in scena, tramutando i personaggi in “pupi” e il racconto in “opra”, resoconto e regesto – espressione – delle sordide e immorali azioni della loro vita. In tal senso, il racconto del loro destino diviene una sorta di risarcimento, perché tale è il linguaggio nella prospettiva di Différence et Répétition (Il Mulino,1971) di Deleuze.
Una delle suggestioni che si coglie osservando le fotografie scattate da Torrisi è la percezione dell’assunzione di un punto di vista radicale da parte dell’autore, che allontana da quella concezione che, in genere, si ha della fotografia come rappresentazione estetica (paesaggi, ritratto, etc.) e come documentazione del vissuto collettivo, familiare e personale dell’esistenza (foto di avvenimenti storici, reportage, viaggi, vacanze, matrimoni).
Le immagini raccolte da Torrisi rinviano, infatti, a una delle prime applicazioni dell’arte fotografica, ovvero la cosiddetta immagine-wanted indagata in un suo straordinario lavoro (Wanted! Storia, tecnica ed estetica della fotografia criminale, segnaletica e giudiziaria, 2003) da Ando Gilardi, uno dei personaggi più significativi della fotografia italiana, e che si declina nella “targa fotografica”, nella foto-segnaletica giudiziaria, nell’immagine ottica che compare agli albori del Novecento negli atlanti di medicina legale, negli schedari criminali e psichiatrici e nei rituali della documentazione dei cadaveri.
Si tratta, nel libro di Gilardi come in quello di Torrisi, di storie singolari, bizzarre, ma anche dolorose e terribili, che hanno come protagonisti ladri, boia, malati di mente, rivoluzionari, donne di malaffare e assassini, preti e nobili, appartenenti a tutte le classi sociali ma tutti accomunati dalla singolarità della loro condizione di déraciné.
L’occhio del lettore si posa su queste immagini. La prima impressione che ne coglie è quella di trovarsi di fronte a dei fossili.
Fossile è la traccia tangibile, l’impronta per contatto e per perdita di una vita passata della quale è rimasta soltanto la mera forma: un involucro pietrificato.
Proprio per la sua costituzione, il fossile è anche uno dei segni che, a partire da Peirce, si può inscrivere all’interno del processo semiotico dell’indicalità.
L’indice, insieme all’icona e al simbolo, costituisce una delle tre possibili declinazioni del segno. Ciò che lo contraddistingue è la contiguità fisica, il rapporto di effetto che intrattiene con l’oggetto cui si riferisce: la sua immanenza.
Le fotografie selezionate da Torrisi, scaturite da una singolare operazione di rimediazione di un medium pre-esistente, spiccano per la loro forma indicale per eccellenza: l’impressione. È l’impressione a restituire corpi pietrificati, corpi che diventano architetture; corpi che, nella loro immanenza condividono un comune destino fossile eccentrico, perturbante ed enigmatico; corpi che si agglutinano in un complesso sistema di immagini rinvianti, allusive, a un dispositivo che unisce in sé oggetto, assenza e desiderio: il feticcio.
Ed è proprio sulla temporalità del fossile, del corpo pietrificato-mummificato, del corpo-feticcio, del sinthome (Lacan, Le Séminaire, Livre XXIII, 2005), dell’umano trasformato in puro indice e del tempo interiore mineralizzato in quello esteriore, che si giocano la forma e il senso del libro di Torrisi.
Il fotografo Alfio Torrisi
Questo libro manifesta, di fatto, una “poetica dell’indicalità” suggestiva e feconda, frutto di una lettura colta e prospettica che l’autore compie in modo ammirevole partendo da una personalissima esigenza di ricerca e di esperimento in consonanza sia con le ricerche compiute negli anni Ottanta del secolo scorso da Italo Calvino e Michael Dummett sui Tarocchi sia con le teorie sulla logica dell’indice nella riflessione sull’indicalità fotografica e sull’arte contemporanea condotte a partire dagli anni Novanta da Krauss, Mulas, Vaccari, Barthes ed Eco, rivelandoci un artista e un intellettuale dallo sguardo profondo e ammagatore, capace di misurarsi con temi ardui e sfuggenti come il tempo, la morte, il destino, la memoria e l’oblio.