All’inizio si poteva trascurare o non farci caso. Dopo circa un anno la presenza si stava facendo ingombrante, ed ora, a distanza di tre anni dalla sua prima e casuale - per sua stessa ammissione - mostra personale è diventato inevitabile occuparsi di Max Papeschi.
Molti lo amano, molti lo odiano, moltissimi lo invidiano.
Vi è una nutrita schiera di Max Papeschi addicts, che lo seguono come una rock star, si fanno fotografare con lui, intasano la sua bacheca di Facebook, come vi è un gruppo di detrattori che riducono il suo lavoro ad una trovata scandalistica finalizzata alla vendita di opere considerate brutte e mal fatte. Gli invidiosi sono, invece, degli amanti rifiutati, delle volpi troppo grasse o troppo pigre che non riescono ad impegnarsi per raggiungere il tanto agognato grappolo d’uva e allora, come da tradizione, lo disprezzano.
Ho osservato Max per circa un anno e mezzo prima di contattarlo. Il suo lavoro mi incuriosiva, il suo essere onnipresente mi affascinava, la quasi voluta ingenuità e l’apparente sciatteria nella realizzazione delle sue immagini, che tanto mi ricordavano gli amati collage di Hannah Hoch e ancor più le opere di quel genio misconosciuto di John Heartfield (non a caso la Hoch e Heartfield sono entrambi esponenti del Dada berlinese), arricchivano il suo lavoro, a mio parere, di una serie di rimandi interessanti.
Per me Max è un laboratorio di creatività vivente, è un topolino bianco che seguo e di cui annoto i comportamenti come un ricercatore del CNR. Non è un artista, ma sta diventando lui stesso un manufatto artistico, incarnando il suggestivo e visionario precetto estetizzante di trasformare la propria vita in un’opera d’arte.
Per quanto con mille resistenze, osteggiati dai complessi d’inferiorità di addetti ai lavori che non riescono ad aprire la propria mente oltre un rassicurante paupero-minimalismo, bisogna prendere atto, se si vuol cercare di comprendere il contemporaneo, che il comunicare e la comunicazione sono componenti estetiche.
Oramai da quasi cinquant’anni e, forse, da qualcosa di più, se teniamo conto che questa tendenza è stata inaugurata da Marcel Duchamp e dalla sua Eau de violette, la bellezza (in una dimensione di pura teoria estetica) corrisponde sempre più con ciò che è appropriatamente comunicato.
Ricordiamoci - questo è un dato che non andrebbe mai dimenticato quando parliamo di arte contemporanea - che il più acclamato tra gli artisti viventi e il maggiore esponente del YBA, Damien Hirst, deve il suo successo e il riconoscimento qualitativo delle sue opere al fatto di avere come maggior collezionista e mecenate Charles Saatchi, non a caso uno dei guru della pubblicità a livello mondiale.
In questo contesto il lavoro di Papeschi risulta essere veramente interessante e stimolante, e, come si è detto, incarna il vero senso dell’hic et nunc, offrendoci la possibilità di osservare nel suo evolversi la nascita di una pagina di storia dell’arte contemporanea.
Credo che Max faccia un buon lavoro, come credo che pane e Nutella siano la miglior merenda per un bambino o che uno yogurt alla mattina aiuti la mia regolarità.
D’altronde Max non fa nient’altro che essere un po’ cattivo in un mondo che, formalmente, rifiuta la cattiveria e premia l’ipocrisia.
Ma non era questo il ruolo del giullare o, come mi è capitato di scrivere in passato, del Pasquino, e quindi l’azione di Max non è frutto di una necessità dell’oggi, ma ha illustri predecessori, forse perché ogni epoca ha bisogno dei suoi giullari e dei suoi Pasquini.
L’inconsistenza e la fatuità che vengono riconosciute alle opere di Max risiedono nel fatto che il suo lavoro sia troppo visto e visibile, sia troppo facilmente leggibile, troppo popolare o pop, ma a questa stregua dovremmo dire che anche la leonardesca Monnalisa è un’opera di scarsa qualità, poiché la sua fortuna critica è frutto di una campagna pubblicitaria ante litteram che ha le sue origini in sdilinquimenti di sapore estetizzante di un gruppo di intellettuali francesi tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento.
Forse il problema è che il lavoro di Max Papeschi non ha bisogno, in apparenza, di libretti d’istruzione, che è immediatamente comprensibile, che ha una penetrazione che supera le merlate mura di alcuni asfittici ambienti dell’arte contemporanea, per giungere in maniera distinta a tutti. Ma, d’altronde, non ho bisogno di essere un esperto di miscele di cacao per sapere che la Nutella è veramente buona.
Io in Max Papeschi credo. Mi piace, m’interessa e mi diverte, e se questo è segno di superficialità o di non intendersi d’arte, pazienza. Preferisco rimanere in superficie e guardare come gira il mondo o farmelo spiegare da Max, piuttosto che morire soffocato sotto un cumulo di stracci stantii, abbandonati da quarant’anni.
Testo di Igor Zanti per il catalogo "Max Papeschi - Exit From Heaven" 2011 pubblicato da Leo Galleries
NaziPinkieMouse (2009) di Max Papeschi in mostra alla Leo Galleries di Monza |
VERNISSAGE Giovedì 15 Dicembre 2011
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