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venerdì 3 novembre 2017

INTERVYOU. Nel privé con Michele Monina, intervistato da Marla Lombardo.


Irriverente, sfrontato, provocatorio.
Scrive, collabora, una penna instancabile.
Tra romanzi, biografie di cantanti e libri di viaggio, ha all’attivo settanta libri pubblicati, ultimi due dei quali scritti a quattro mani con Vasco Rossi, il "Vasco Mondiale".


Volente o nolente, la sua nomea lo precede sempre, la sua è la voce più dissacrante del panorama musicale italiano, un cane sciolto a detta di molti, il più cattivo a detta di altri.
Ma è anche uno che le cose non le manda a dire, anzi!

Lui è uno che lascia il segno: O lo si ama o lo si combatte, ma non si può farne a meno.
A coro unanime, lui è il critico musicale sui generis più influente, più temuto ma anche il più idolatrato. 
Lui è il più di tutto.
Lui è Michele Monina.

Michele Monina è l'ospite di INTERVYOU, il privé di Untitled Magazine.



Premesso che pretendo risposte che vanno in profondità, e non in lunghezza, chi è Michele Monina?
Ma forse è troppo poco in lunghezza. Quindi aggiungo, un umanista, nel senso rinascimentale del termine.

Michele critici si nasce o si diventa?
Credo che sia una questione di attitudine e competenze, quindi si nasce critici, ma lo si diventa compiutamente studiando molto e cercando di rimanere liberi.

Quando hai cominciato ad approcciarti al meraviglioso mondo della musica, qual è stata la spinta per cominciare?
Io ho cominciato a scrivere di musica dopo aver esordito come narratore, perché l'allora caporedattore di Tutto Musica, Luca Valtorta, mi chiese di poter pubblicare un mio raccontino appena uscito sulla rivistina del locale milanese Il Tunnel. Il raccontino si chiamava Il tiracapezzoli, e parlava del ragazzo che preparava le ragazze per i calendari di Max, allora molto in auge. Da lì a intervistare John Frusciante è stato un passo.

Se io dico “Libro”, tu dici…
Ecco, questo è il mondo in cui mi sono sempre mosso più a mio agio. In venti anni esatti, il mio esordio è avvenuto verso la fine del 1997 con la raccolta di racconti “furibonde giornate senza atti d'amore”, ho pubblicato 70 libri, e a molti altri ho collaborato come consulente, inizialmente anche come traduttore. L'idea di stare in pantofole a casa a scrivere non mi è mai spiaciuta.








Cos'è per te il Talento?
Il talento è un dono, credo. Una qualche caratteristica che ci distingue dagli altri. Quindi non necessariamente un talento artistico, anche se è più spesso con questi che ho a che fare. In genere il talento va poi coltivato, con lo studio e il lavoro, concetto che in musica si sta perdendo grazie a chi ci ha raccontato che basta avere solo una buona tecnica per potersi affermare, appunto in assenza di talento.

Chi riconosci come tuoi simili?
In ambito di critica musicale, in Italia, direi nessuno. Ho deciso di confrontarmi col mainstream Di entrare nel sistema come l'ospite ingrato del poeta. Un po' come un virus. Trovandomi quindi circondato da tutta una serie di colleghi che hanno fatto dello stare a servizio del sistema il loro mestiere. Anche tra i più giovani, quelli che come me operano in rete, ho trovato un atteggiamento asservito, oltre che uno sgradevole disinteresse per lo stile e la scrittura. Ci sono, invece, voci straniere che mi piace leggere, dall'ovvio Simon Reynolds a Chuck Klosterman, passando per i classici Greil Marcus e Paul Morley.








Quali sono state le tue collaborazioni più importanti?
Sicuramente non avrei iniziato a scrivere se Nanni Balestrini non mi avesse spronato a farlo, nella metà degli anni Novanta. E probabilmente se non avessi incontrato Vasco, poi tornato di nuovo nella mia vita recentemente, coi due libri appena pubblicati e scritti a quattro mani, non avrei potuto vivere così a lungo di scrittura. Anche l'incontro con Peter Gomez, che mi ha spinto a riprendere a scrivere di musica per giornali lo metterei tra quelli fondamentali.

Secondo te, cosa ci definisce? Ciò che siamo o ciò che facciamo?
Sinceramente non vedo nessuna differenza tra ciò che sono e ciò che faccio. Immagino sia un privilegio, pagato a caro prezzo. In genere, però, suppongo che a definirci sia ciò che facciamo.









Come giudichi il Paese ITALIA in genere?
Sarò banale, ma lo considero un posto magnifico che è stato tristemente lasciato andare a fondo dagli italiani. Un paese alla fine dell'agonia, probabilmente senza tante possibilità di salvezza, e lo dico con la consapevolezza di aver messo al mondo quattro figli, quindi di averli in qualche modo condannati a fare i migranti.

E a Milano, dove vivi e lavori, che scena vedi? Cosa sta succedendo in questa città?
Quando sono arrivato quassù, venti anni fa, mi ero illuso ci fosse un fermento, una scena, appunto. Pensavo, allora, a una scena letteraria, perché quello era il mio ambito di competenze. Da provinciale vedevo a Milano come a una piccola Londra, un luogo multietnico dove, seppur sotto governo leghista, coesistere fosse possibile. Temo di essermi sbagliato. Milano è un posto dove ci sono opportunità, questo sì. Probabilmente in Italia è il posto migliore dove trovarne. Ma è una città dura, impietosa con chi perde. E siamo pur sempre in Italia.




Cosa accadrà in futuro? Cosa è scritto nell’agenda di Michele?
Questi ultimi tre anni mi hanno visto passare dall'essere uno che scriveva libri, molti, da solo a casa, a essere in qualche modo diventato un personaggio e un personaggio pubblico, fermato in strada (colpa questa della tv). Mi sono volutamente messo un po' in ombra, negli ultimi mesi, abbandonando momentaneamente la radio e lasciando che sui social fosse la musica al femminile a occupare la maggior parte dei miei spazi. Credo ora sia arrivato il momento di tornare, sempre con la mia attitudine da tasso del miele, piccolo, incazzato e per niente intimorito dai predatori più grandi.

Qual è il tuo motto?
Non credo di averne uno. O meglio, quello che in genere ripeto come un mantra è la rivisitazione di una frase piuttosto nota: “Quando il dito indica la luna lo stupido guarda stocazzo”.





Ed il tuo vizio preferito? O hai solo virtù?
Non credo di avere nessuno dei vizi solitamente indicati come tali, nel senso: non fumo, non bevo e non gioco d'azzardo, ma non per scelte morali, proprio non mi interessa. Non mi drogo, perché faccio già abbastanza fatica a gestire le mie idee da sobrio. Sono felicemente monogamo da quasi trent'anni, ma quella è una questione di fortuna e dedizione, direi, non proprio un merito. Ecco, mi piace mangiare, e suppongo si noti.

Che cosa ami di più?
Visto che mi chiedi cosa e non chi, direi amo più di tutti la libertà.






Qual è la tua più grande paura?
Come dicevo prima, ho quattro figli, le mie paure, non ossessive, sono tutte legate a loro, alla loro salute, e al loro futuro. Per quel che riguarda me, e anche il mio lavoro, sono abbastanza strutturato da sapere che è ondivago, va a periodi e che tutto può salire vertiginosamente e anche precipitare velocemente. Quindi vivo abbastanza alla giornata, programmando le cose, ovviamente, ma pronto a cambiare percorso.

Che cos’è per te “essere estremo”?
In realtà credo che oggi come oggi, almeno nel mio campo, essere estremi significhi essere radicali, coerenti, fermi. Stare in piedi in un mondo di gente a quattro zampe, senza timori di raccontare quel che gli altri poi ti diranno di aver saputo da sempre. Senza fare sconti, magari abusando della nomea di essere un mezzo matto, un cane sciolto.








La tua coscienza è più apocalittica o più integrata?
Sono un quarantottenne che sta da ventinove anni con la stessa donna, con cui è sposato da diciotto e dalla quale ha avuto quattro figli. Sono stato fino all'anno scorso catechista, figlio di un diacono. Ciò nonostante continuo a non riuscire a vedermi come integrato. Non mi riconosco in nessun tipo di sistema, compresa la Chiesa, per essere chiari, fatto che mi ha spinto a fare il catechista. Suppongo oggi Eco userebbe altre categorie, ma tra le due direi che sono assolutamente apocalittico, un po' più alla Suburra di quanto intedesse lui, però.

Cosa fa Michele quando non è “Michele Monina”?  Come trascorri i tuoi giorni, e, soprattutto, le tue notti?
Partendo dal presupposto che sono sempre Michele Monina, e che credo le foto dei miei bambini sui social abbiano contribuito tanto quanto i miei articoli irriverenti e devastanti a dare spessore alla mia firma, credo di poter dire di condurre una vita piuttosto piacevole, anche se molto faticosa. Mi alzo sei giorni su sette alle sei e quaranta, proprio perché i figli fanno scuole diverse e già alle sette un quarto la più grande esce per andare al liceo. Per scelta me ne sto appartato dagli eventi pubblici e mondani, non frequento conferenze stampe, vado a pochi concerti, evitando le aree stampa. Frequento invece molti cantanti, perché credo sia la parte fondamentale del lavoro di critico, quella. La notte, comunque, sto prevalentemente a casa con mia moglie e la mia famiglia, siamo molto più rock di quello che ci passa il convento.




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Se volete sapere di più su Michele Monina seguitelo nei suoi canali social...




                                            


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