«Non pretendo che la gioia non possa accompagnarsi alla
bellezza; ma dico che la gioia è uno degli ornamenti più volgari, mentre la
malinconia è della bellezza, per così dire, la nobile compagna, al punto che
non so concepire un tipo di bellezza che non abbia in sé il dolore.» (Charles
Baudelaire)
La mia prima ospite nel privé di Intervyou è una donna coraggiosa, forte e determinata. Questa donna ha talento. Si è messa a nudo, anima e corpo, in maniera brillante e profonda.
La sua Arte è forte, sensibile, capace di toccare e smuovere i contorti labirinti della mente, lì dove fa più male.
Ilaria Facci you are in, then you are cool.
1. Quando hai cominciato ad approcciarti all'Arte,
quale è stata la spinta per cominciare?
Non c’è cosa più difficile che
parlare di sé. Per un artista, per una persona, credo significhi chiudere gli
occhi, per ‘sfidarsi’ a guardarsi dentro.
Ma proverò a raccontarmi.
La prima spinta per l’Arte? Il
dolore.
Non c’è nutrimento più
prelibato per l’Arte che il dolore.
E poi, credo, il coraggio
dell’istinto.
Per questo gli autoscatti, nel
mio lavoro non c’è ‘premeditazione’.
Io, non so nulla di
fotografia, di tecnica, di studio delle luci, di postproduzione. Non so nemmeno
che tipo di macchina sto usando.
Anzi ‘lei’, la macchina
fotografica, è apparsa nella mia vita quasi per caso, come l’amore, come quelle
storie che nascono da un incontro fortuito, che so, in un parco: ‘lei’ mi è
stata donata da un’amica, che non se ne faceva più nulla.
Ed un giorno l’ho presa ed ho
iniziato a scattare, che per me ora so, significa scavare. Dentro di sé.
Lì, dove fa più male.
Da piccola mi sono ammalata di
cancro, ‘Retino blastoma’ è il termine tecnico di questa forma tumorale aggressiva, che colpisce agli
occhi.
I danni arrecati sono
irreversibili, ma, a dispetto del parere dei medici, sono sopravvissuta.
È forse questa mancanza, questa
incapacità di vedere la luce, come voi ‘normali’, che inconsciamente mi ha
avvicinato alla fotografia.
Io non vedo la luce come voi,
i miei colori sono più netti, così i miei chiaroscuri; e le mie prospettive più
piatte.
Ma è proprio tutto questo a rendere
le mie foto, mie.
2) In che cosa consistono le tue opere: che temi affronti e con quali
mezzi? Puoi citarne alcuni?
Quando ‘faccio arte’, io non
penso.
Non parto mai da un tema, da
un’idea, non faccio ricerca, né alcuno studio preparatorio.
Non traggo ispirazione, consciamente,
e direttamente, da nulla.
‘Solo’ scatto.
E poi, quando ‘sento’ che è il
momento, le carico sul pc e le vedo, e solo allora scopro ciò che stavo cercando di dire, ma senza
saperlo.
È questo il bello della
fotografia, per me: è un macchinario, ma in realtà è uno specchio. E
all’improvviso, come uno schiaffo, ti mostra chi sei.
Sei tu. La tua anima. La tua
essenza.
La fotografia, quella vera,
quella che rimane, non mostra affatto ciò che vediamo. Mostra ciò che sentiamo.
E forse, quelle tribù che
sostengono che rubi l’anima, non hanno poi tutti i torti.
Questo è il mio modo di
scattare, che mi porta inconsapevolmente a ripercorrere, ogni volta, momenti
dolorosi del mio passato.
Così è nata la serie “Io non
ho paura- contro le botte in cucina”: un urlo sulla violenza domestica, e sulla necessità di
sopravvivere creando un mondo parallelo fatto di sesso, ma anche di personaggi
di fantasia; la serie “Retinoblastoma”:
per mostrare, o forse, per DI-mostrare, che un limite come la semicecità può diventare un dono. Dipende solo da dove ‘lo
si guardi’; “è Alzheimer”: la frase del dottore, quando ci disse la malattia
della mia nonna, ed il mio osservarla nel suo lento ritornare bambina, fino a
morire. O a rinascere.
Così ”Omaggio allo stupro”,
“Il giorno del mio suicidio”, “A Francesca”. Temi che appartengono anche al ‘sociale’,
che attraverso la fotografia riesco, credo, ad esorcizzare, a trasformarli, forse, in bellezza.
E ad abbandonarli, finalmente.
Perché l’Arte si nutre del dolore
è vero, ma una volta sfamato, quel dolore si trasforma, in altro.
In poesia; forse, in un aiuto
per chi leggerà quelle storie illustrate nelle foto, a capire che l’Arte vince,
sempre.
L’Arte vince, nelle rovine di
una città distrutta.
L’Arte vince, la morte del suo
artista.
L’Arte, si riproduce tra le
scaglie di una corteccia in un albero, tra migliaia, in luoghi lontani e sconosciuti.
I dottori sostengono che io
sia nata col tumore.
Sebbene mi sia stato
diagnosticato a due anni, forse il cancro si è sviluppato con me, quando ero
ancora un feto.
Ed è come se io abbia fatto
mia l’idea dell’indissolubile coerenza paradossale del binomio della vita, e
della morte: una attinge dall’altra, da sempre. E per sempre.
La fotografia è il mio diario,
a cui non voglio mentire, ben consapevole del fatto che comunque non potrei. ‘Lei’,
la macchina, se ne accorgerebbe subito.
Piuttosto è lei a farmi
scoprire così un nuovo buio, ogni volta, dentro di me. Ad illuminarlo, ogni
volta, per farmi vedere.
E questo ‘vedere’ è la mia Arte.
Alla donna che più ho amato, una
volta dissi: ‘Tu sei i miei occhi’. Per una semi- non vedente questo è il
complimento più bello che esista.
Ma è andata via.
L’amore che provavo per lei, è
diventato la mia ‘carta bianca’. La macchina fotografica, la mia scrittura.
E la fotografia, le mie
risposte.
La fotografia è gli occhi che
il cancro ha cercato di portarmi via.
Senza riuscirci.
3) Cos'è per te l'arte? La tua visione dell'arte contemporanea?
L’Arte è tutto, eppure sembra fatta
di niente.
E per questo qualsiasi definizione
risulterà sempre insufficiente, approssimativa. Ed Inesatta.
L’Arte, per me, è la vita
stessa. E come si fa a definire la vita?
4) E a Londra, che scena vedi? Cosa sta succedendo in questa città?
Londra è un’esplosione di
energia, positività e crescita.
E’ dinamismo dirompente. Un inarrestabile
caos ordinato.
Ho vissuto in molti luoghi al
mondo, ma l’unica città cui ho detto ‘resto’, è stata Londra.
Qui vige un solo imperativo: ‘Osa’.
5) Ci sono alcuni artisti che influiscono sul tuo lavoro? A cosa ti
ispiri? Come nasce la spinta creativa?
Amo nutrirmi di tutto ciò che
reputo di qualità; film, letteratura, persone, musica, cultura ed arte vengono
prima del pane, per me.
Vivo nella costante ricerca.
La mia spinta creativa nasce
da questo, senza filtri né raziocinio. Pura e spontanea reinterpretazione di
ciò che accumulo, vivendo.
6) Cosa accadrà in futuro? Hai qualche mostra o evento in programma?
Non so cosa accadrà in futuro:
non ho ancora mostre in programma.
Aggiungo una ‘comunicazione di
servizio’: tutte le serie sono in vendita, e molte di esse sono associate ad
enti benefici britannici.
Il guadagno della serie “Retinoblastoma”,
andrà interamente in beneficenza, alla CANCER RESEARCH UK ( l’associazione nazionale
britannica per la Ricerca contro il cancro): ogni opera, in questo caso, consta
della fotografia scattata da me, accompagnata dalla fotografia dell’importo
(identico al prezzo pagato dal cliente) del bonifico a favore dell’ente.
E questo mi basta.
Per ora.
7) Tre parole che ti rappresentano.
Forse d’impulso, per primo direi:
“artista”.
Mia mamma mi racconta spesso
di come all’asilo la maestra mi chiamasse “la Pasionaria” , per la mia indole
idealista; una piccola femminista
indomita e ribelle, che voleva cambiare il mondo, tra i minuscoli banchi e le
lettere di legno colorato.
Ecco, il mio lavoro -e la mia
vita- non è altro che il mio modo di cambiare il mondo, in silenzio, quasi
cullandolo ed amandolo; è come se dicessi, a me stessa, e agli altri: ‘se
riesco a trasformare l’orrore in bellezza, allora tutto può essere trasformato
in qualcosa di utile, di migliore.
Possiamo cambiare ogni cosa,
anche il tumore, anche la guerra, anche la morte, in speranza, in sogno.
In amore.
La terza parola è forse “Ricercatrice”:
noi siamo un percorso, una continua, infinita ricerca e scoperta, di noi
stessi, e del mondo.
Fermarsi, è il solo modo di
morire che conosco.
8) Cosa fa Ilaria quando non è "artista"?
Io sono artista. E un’artista
lo è sempre. Non può essere altrimenti.
Lo sono quando non cucino, ma
ho fame, e mi attacco al primo pezzo di formaggio che trovo.
Lo sono quando medito il mio
Buddismo.
Lo sono quando tornando a casa
ubriaca, nel buio, decanto poesie improvvisate, che nessuno mai udrà, né io mai
trascriverò.
Sono artista quando mi butto in
testa la tintura di un colore a caso, perché ho voglia di futuro.
Lo sono quando piango, di un
pensiero.
Lo sono quando parlo, quando
timidamente mi nascondo dalla gente, e tra la gente, osservo.
L’artista non è la sua opera.
L’artista è la sua stessa essenza.
Ma ‘artisti’, per me, lo sono
tutti gli esseri umani.
Semplicemente alcuni non si
sono ancora dati la possibilità di scoprirlo.
Ilaria Facci nasce a Roma nel 1982.
A due anni e mezzo si ammala di tumore, “Retinoblastoma”all’occhio
sinistro.
Nel 1992 si trasferisce, con la madre e la sorella, a Buenos Aires.
Nel 2000 torna a Roma, dove si iscrive alla facoltà di lettere,
presso La Sapienza; dopo circa un anno l’ abbandona per iscriversi
all’Accademia di Moda e Costume.
Continua poi gli studi con un Master in Comunicazione; studia
inoltre Cinema, fotografia e musica presso il DAMS, a Roma.
Nel 2009 viaggia spesso a Barcellona.
Nel 2010 si trasferisce a Milano, dove intraprende la
carriera di Stylist e di costumista.
Durante questo periodo collabora con nomi importanti
quali il fotografo Mustafa Sabbagh, redazioni quali Cosmopolitan, e marchi internazionali, come
L’Oreal e Nikon.
Nel 2012 viaggia in Armenia.
Nel 2013 abbandona la carriera di stylist, e si
trasferisce a Londra.
Dal 2014 comincia ad apparire in magazine d’arte e di
fotografia per i suoi ‘autoscatti sbagliati’. (kritikaonline, VOGUE.IT, INSIDE
ART).
Attualmente vive a Londra.
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